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Flessografia: storia e caratteristiche

DiVittorio Traetti

Set 9, 2012

Quando parliamo di stampa flessografica, o più brevemente di flessografia, ci riferiamo ad una caratteristica procedura di stampa, molto utilizzata, caratterizzata essenzialmente dall’uso di una piastra flessibile che porta, in rilievo, I caratteri o simboli da stampare. Nonostante sia una tecnica di vecchissima data, è ancor oggi utilizzata in un numero significativo di casi: questo è dovuto alla sua versatilità, che rende possibile stampare su una grande gamma di supporti, dalla carta al cellophane al metallo, inclusi I supporti rigidamente non-porosi che sono necessari per gli incarti e gli involucri destinati a proteggere gli alimenti confezionati dalla contaminazione. Ma quali sono gli effettivi vantaggi che questo sistema di stampa può offrire, e qual è la sua storia, dalle origini ad oggi?

La stampa flessografica nasce in Inghilterra, e per essere precisi a Liverpool, ben più di un secolo fa, esattamente nel 1890, quando venne costruita la prima macchina di questo tipo. A realizzarla fu la ditta Bibby, Baron and Sons, e la macchina prese il soprannome di “Bibby’s Folly”, ossia “la Follia di Bibby”, perché faceva uso di inchiostri a base d’acqua, che sbavavano con grandissima semplicità. Nel giro di trent’anni, gli sviluppi tecnologici spostarono la lavorazione in Germania, dove aveva il nome di “Gummidruck”, che significa “Stampa a gomma” – nome che mantiene, da quelle parti, ancor oggi. Inoltre si migliorò la solidità delle stampe passando a degli inchiostri a base di anilina. E fu proprio questo a far nascere il primo grande nodo della storia della flessografia: negli anni ’40, negli Stati Uniti, gli inchiostri a base di anilina furono dichiarati inadatti, perché tossici, alla stampa di materiali per alimenti, che era il principale campo di applicazione della tecnologia. Le vendite crollarono verticalmente.

Nel ’49, fortunatamente per I produttori e gli stampatori, vengono testati e approvati dei nuovi inchiostri, infine sicuri e atossici, adatti alla stampa in campo alimentare; ma purtroppo la cattiva impressione permane, e le vendite non si risollevano, e il dilemma rischia di far fallire il settore. Le associazioni di categoria si resero conto che occorreva un’immagine nuova, un nome innovativo che non rievocasse cattivi ricordi; e Franklin Moss, presidente della Mosstype Corporation, condusse a riguardo un sondaggio sul suo giornale, il MossTyper. Fra centinaia di nomi possibili, I tre finalisti risultarono essere “permatone”, “rotopake” e quello che finalmente come sappiamo vinse largamente, “flexograph”, il nome che usiamo anche oggi per descrivere il procedimento.

E se ancor oggi parliamo di stampa flessografica e la usiamo tanto diffusamente è perchè, sebbene per molto tempo (per la precisione, almeno fino agli anni ’90) non abbia offerto livelli di nitidezza confrontabili con quelli offerti dalla stampa offset, dà in compenso la possibilità di lavorare su moltissimi supporti diversi, tutti tipici del packaging, come plastica, pellicole metalliche, cartoni e acetato, e di usare inchiostri anche a base d’acqua. In generale, inoltre, tutti gli inchiostri flessografici sono poco viscosi, e quindi tendono ad asciugare in fretta, accorciando I tempi di lavorazione e di conseguenza I costi. Per tutti questi motivi, ancora oggi, la flessografia ha ancora un ruolo significativo e una posizione precisa nel mondo della stampa, e non accenna a volerli abbandonare.

Di Vittorio Traetti

Sono uno scrittore con un amore per la lingua inglese. Scrivo per lavoro, divertimento e talvolta solo perché ho bisogno di espellere i miei pensieri sulla pagina.